21 gennaio 2013

Quale Scuola, domani?

di Christian Citraro

Negli ultimi vent’anni la scuola non è più stata al centro dell’agenda politica di questo Paese, messa ai margini dell’iniziativa parlamentare, tutt’al più è rimasta intrappolata nella morsa di un riformismo frenetico, confuso e inconcludente, che anziché porla a sistema d’istruzione all’avanguardia, diffuso ed organizzato sul territorio, volano di sviluppo per le giovani generazioni, non ha fatto altro che deprimere ancor di più le potenzialità che covano sotto le ceneri di un’istituzione andata inesorabilmente in fumo, destrutturando progressivamente un modello educativo che ad oggi, pur a fatica e stenti, complice la passione ed il senso di missione degli operatori scolastici, aveva garantito una parvenza di qualità nel nostro sistema di istruzione.
La scuola come luogo di integrazione e scambio, ove la conoscenza e l’elaborazione del pensiero contribuiscono a far superare le differenze sociali e culturali tra i ragazzi, sopravvive nell’idea romantica, deamicisiana o gentiliana di tanti, forse troppi, che vedono i temi legati alla formazione dei cittadini di domani come mero spunto retorico per strappare facili applausi di circostanza.
Le troppe chiacchiere lasciano spazio ai normali problemi quotidiani: cronica mancanza di fondi, edilizia scolastica fatiscente, classi sovraffollate, bullismo, scarsità di tecnologie e laboratori, studenti disinteressati in balia dei mezzi di distrazione di massa, deficit d’apprendimento nel confronto con le altre scuole europee, un diffuso e pervicace precariato falcidiato dagli stringenti tagli lineari al personale, mancanza di motivazioni e scarsa considerazione sociale, metodi didattici ed educativi desueti e non al passo con i tempi per un corpo docente tra i più vecchi d’Europa, assenza di concorsi “veri” e di un sistema di reclutamento efficace da oltre un decennio, razionalizzazione del personale ausiliario, tecnico ed amministrativo, dirigenti scolastici ridotti a burocrati e costretti ad operare in un ambiente quanto mai problematico. Questi ed altri sono soltanto alcuni segni di questo tangibile degrado.
Nelle disattese intenzioni dei nostri lungimiranti e saggi padri costituenti la scuola avrebbe dovuto rappresentare un ascensore sociale, principale strumento di attuazione dei principi di libertà ed uguaglianza sanciti dalla nostra Costituzione. Ciò che rimane è una scuola ridotta ad ammortizzatore sociale, ridicolizzata dalle altre e più blasonate professioni, considerata alla stregua di categoria improduttiva.
La scuola, del resto, è specchio fedele della società. Le due maggiori istituzioni centrate sul cittadino, la scuola e la politica sono oggi accomunate da un triste destino, in piena decadenza, in totale balia del mercato e della tecnologia: «Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna, chi non sa insegnare insegna agli insegnanti, e chi non sa insegnare agli insegnanti, fa politica», è l’inconfessabile sentire comune di tanti professionisti.
I dati in fatto di mobilità sociale dei giovani non sono per niente confortanti, dando un’immagine negativa della nostra realtà nazionale. Da tempo ci si chiede: quante possibilità ha una persona nata in una determinata classe sociale di accedere a certe professioni e di realizzare le proprie aspettative? Dopo i timidi passi in avanti verificatisi sotto la spinta del ’68 in Italia i processi di mobilità sociale sono bloccati da diverso tempo. La scuola è poco selettiva e finisce per riprodurre le disuguaglianze di partenza. Il mercato del lavoro è bloccato, rigido e corporativista da una parte o estremamente fluido, flessibile e precario dall’altra, e così la strada maestra diventa, quando va bene, fare il lavoro di mamma e papà, rimanere inoccupati o parcheggiarsi all’Università.
Non si fanno più investimenti in capitale umano, si taglia in enti locali e in istruzione, cultura e formazione ed all’Università non c’è più ricambio. Bisognerebbe proteggere, favorire e promuovere gli interessi strategici delle nuove generazioni, fissarla come la priorità delle priorità e destinare buona parte delle risorse disponibili. Ed invece nessuno ci mette mano. Una realtà totalmente cieca nei confronti del futuro ed una generazione piena di energie, competenze e creatività, abbandonata a se stessa.
Urge cambiar rotta. C’è bisogno di una scuola più autonoma e radicata sul territorio che investa sull’educazione, realizzabile unicamente tramite gli alti ideali del bene comune e del buon governo della comunità, puntando all’innovazione con adeguate risorse finanziarie e di personale, rivendicando i poteri dello Statuto in materia scolastica. La nostra idea di scuola è una scuola pubblica di qualità, che valorizzi il merito, che garantisca a tutti pari opportunità di apprendimento e di educazione, che si prenda cura del successo scolastico anche dei diversamente abili e svantaggiati e della piena integrazione degli immigrati.
Nel passato prossimo si è fatto un gran parlare delle famose “Tre I”, Inglese-Internet-Impresa, così come delle “Tre T”, Tecnologia-Talento-Tolleranza, care rispettivamente al centrodestra e al centrosinistra, che a parere degli addetti ai lavori sarebbero dovute essere tappe obbligate nel processo di innovazione del nostro Paese. Noi riteniamo si debba ripartire dalle fondamenta, le “Tre D”, Docenti-Discenti-Dirigenti, tanto vituperate, rilanciando un processo di rinnovamento organico che parta dalla base, attraverso una Vera Riforma, condivisa da tutti, che guardi al di là dell’orizzonte e che abbia il coraggio di scommettere sull’Istruzione mediante un piano d’investimenti di lungo termine che possa fattivamente far ripartire il Sistema-Italia: per le aule scolastiche passa il futuro del Paese e al futuro non possiamo e dobbiamo rinunciare. La necessità di investire sulla scuola è, allo stato attuale, oltre che dettata dal contesto di crisi internazionale, una vera e propria emergenza nazionale.
L’evoluzione che il nostro sistema scolastico ha intrapreso negli ultimi decenni, nella direzione dell’elevamento della formazione culturale per tutti e dell’integrazione dei sistemi, deve rappresentare la base su cui costruire il necessario processo d’innovazione. Per troppo tempo Licei e Istituti Tecnici sono stati pensati come due sistemi inevitabilmente rigidi e gerarchizzati: il primo astratto e teorico nella logica del vecchio liceo e il secondo sostanzialmente rivolto all’avviamento al lavoro. Tra i possibili interventi finalizzati ad offrire innovazioni organizzative vi è l’opportunità di favorire la formazione, sempre più strategica per il mondo produttivo, attraverso la valorizzazione degli Istituti Tecnici e Professionali, venendo incontro ai fabbisogni formativi espressi dalle aziende, alle esigenze dei giovani di acquisire competenze e dei lavoratori di mantenersi aggiornati ai continui cambiamenti del mercato.
Progettare ed intervenire nel territorio attraverso una strategia di rete fra le diverse realtà, creando sinergie che non disperdano le risorse economiche e quelle umane, ma le mettano in relazione per garantire un’effettiva integrazione di servizi che promuovano il benessere nella scuola.
Incentivare le pratiche volte all’orientamento scolastico, per prevenire gli abbandoni ed il prolungamento eccessivo degli studi, rafforzando il legame con il mondo universitario e favorendo la continuità scuola-università, al fine di intrecciare relazioni che possano offrire un valido contributo all’elaborazione del percorso formativo degli studenti, alla creazione di servizi di accompagnamento per le scelte dei giovani, alla costruzione di social-network per valutare le trasformazioni e le richieste del mondo del lavoro, e, al tempo stesso, alla definizione di strumenti atti a diminuire la dispersione scolastica, mirando a realizzare progetti e convenzioni tra scuole, università, enti, imprese e mondo del no-profit, per scoprire le potenzialità insite in ciascuno.
Superare la logica dell’Università quale luogo della semplice trasmissione dei contenuti disciplinari, verso un’attivazione dei processi cognitivi, non del mero apprendere, attraverso la comunicazione come modalità del rapporto educativo, al fine di creare una “comunità di docenti e discenti”, operando una netta distinzione tra sapere e saper fare, tra teoria e pratica, tra ricerca teorica e ricerca sperimentale, evitando il pericolo, più volte denunciato, di una licealizzazione dell’Università, alla perdita della sua specificità quale luogo in cui acculturamento e competenza da acquisire vadano di pari passo con la riflessione critica e l’elaborazione originale della cultura medesima, sia scientifica che umanistica, per guadagnare un rapporto educativo che non si esaurisca esclusivamente nella lezione cattedratica.
Per far ciò bisogna sforzarsi di vedere le nuove generazioni come una risorsa, non come oggetti misteriosi o ingombri. Parecchi giovani sono oggi portatori di idee e di innovazione, che troppo spesso si scontrano con il vecchio sistema dell’anzianità e delle strutture verticali e verticistiche del potere. Bisogna sdoganarsi da questa logica dell’omologazione che investe il talento individuale, costretto a rimanere incatenato entro gli spazi definiti dall’inoccupazione, dal posto di lavoro, dal nepotismo o, peggio ancora, dal clientelismo becero.

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